domenica 22 giugno 2014

Alzheimer, arriva il test. Alkon: «Basta un prelievo di pelle»

Il prelievo di un piccolo frammento di pelle dal polso, la coltura del tessuto in laboratorio e poi la lettura del test. Per scoprire se l’Alzheimer ha cominciato o no a danneggiare il cervello. Un esame capace di permettere la diagnosi quando, della malattia, ci sono dei segnali. Dall’assenza della memoria recente, al disorientamento spaziale, alla perdita della capacità di giudizio fino al repentino cambiamento di umore. Il test è pronto (tutte sperimentazioni sono state superate), entro l’anno verrà utilizzato negli Stati Uniti. Dove è stato messo a punto.
Daniel Alkon, direttore scientifico del Blanchette Rockefeller Neurosciences Institute, università West Virginia, ha dedicato il suo lavoro di ricercatore agli imperscrutabili meccanismi della memoria. Al suo andare e venire, al suo sparire. Anche in età in cui la memoria dovrebbe essere intatta. Due i filoni della sua ricerca: uno, appunto, va verso il test per riconoscere preventivamente la malattia di Alzheimer e l’altro verso l’utilizzo di un farmaco che dovrebbe essere in grado di riattivare le comunicazioni (le sinapsi) tra i neuroni. «I risultati degli studi che seguiamo da anni mi permettono di dire che abbiamo buone notizie per tutte e due le branche».
Cominciamo dal test, potrebbe essere fatto a tutti arrivati ad una certa età?
«No, no. Chiariamo subito che il test, il primo messo a punto, sarà utilizzato per le persone che mostrano i primi sintomi dell’Alzheimer. Per ora è così, poi vedremo».
Sintomi in un’età preoccupante?
«L’Alzheimer mostra tutta la sua crudeltà in età avanzata ma i primi segni, quando si ricostruisce la storia del paziente, si ritrovano anche in qualche anno prima»
A che cosa si riferisce?
«Ai buchi della memoria recente, al senso di spaesamento continuo, a repentini cambi di umore, ad atteggiamenti aggressivi, sintomi paranoici, disorientamento».
Perché, per valutare se si è malati o no di Alzheimer, prendete una frammento di pelle?
«L’obiettivo è quello di verificare la quantità di una proteina, la PKC epsilon, presente sia nell’epidermide che nel cervello. Questa impedisce alla proteina tossica dell’Alzheimer di distruggere le connessioni tra le cellule nervose. Le sinapsi. E proprio la perdita di sinapsi nel cervello dei pazienti con Alzheimer è strettamente correlata con il grado di demenza».
E in laboratorio che ne fate del materiale prelevato dal polso?
«Il frammento di pelle viene messo in coltura. Dopo due settimane viene testato e letto con una tecnica che impiega quasi due ore. Se il dosaggio della proteina PKC epsilon risulta basso o i risultati della sua attivazione sono bassi vuol dire che il paziente ha il morbo di Alzheimer».
Quindi, quei sintomi che ha elencato, sono da attribuire ad altre malattie?
«Infatti. Il test può servire anche per escludere la malattia. A quel punto si va a cercare altrove la causa del danno alla memoria. Pensiamo ad un problema vascolare come ad un profondo stato depressivo. Ma è importante escludere la patologia più grave».
Quale decisione prende, a questo punto, un medico visto che non esiste una cura per il morbo di Alzheimer?
«Ora utilizza i farmaci che si hanno a disposizione per rallentare la patologia basati sulla presenza delle placche nel cervello. Ma può fare anche molto di più monitorando con ancora maggiore attenzione l’evolversi della degenerazioni. Noi, al Blanchette Rockefeller, abbiamo appena iniziato a sperimentare una nuova terapia. Che deriva proprio dalle ricerche sul ruolo critico della perdita delle sinapsi nell’insorgenza della demenza».
Ha avviato una sperimentazione con quale farmaco?
«Un nostro lavoro ha dimostrato che un proteina, la briostatina, è in grado di stimolare la produzione di proteine essenziali per la memoria a lungo termine. La briostatina è stata sviluppata inizialmente come farmaco contro i tumori, ma viene usata raramente».
Quindi, un medicinale nato per i tumori ora lo adottate contro l’Alzheimer?
«Due mesi fa ci è stato dato il via libera, lo stiamo sperimentando e i risultati sono soddisfacenti».
Può rivelare su quali pazienti state lavorando?
«Sì, su una donna di 38 anni…»

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